
Giulio Cesare: Sa, si vive per i figli, e poi marzo è il mio mese preferito…
*Gaio Giulio Cesare (100-44 a.C.) è stato un politico, militare, oratore e scrittore romano, considerato uno dei personaggi più influenti della Storia. Apparteneva a un’antica famiglia patrizia, la gens Iulia, che si diceva discendesse da Iulo (figlio di Enea e nipote di Venere): tuttavia, la famiglia di Cesare non era particolarmente ricca.
Questo inizialmente ostacolò la carriera del futuro dittatore, così come la parentela con Gaio Mario, suo zio e leader della fazione dei populares (democratici), cui si opponeva il partito degli optimates (conservatori) di Lucio Cornelio Silla: quando questi divenne dittatore, nell’82 a.C., Cesare lasciò Roma per recarsi in Asia a svolgere il servizio militare. Qui partecipò alla sua prima battaglia, distinguendosi per il suo coraggio.
Cesare rientrò a Roma solamente dopo la morte di Silla, avvenuta nel 78 a.C., e decise di dedicarsi alla carriera forense. Durante un viaggio con destinazione Rodi venne rapito dai pirati, che chiesero un riscatto molto alto: Cesare disse che i suoi amici avrebbero consegnato loro più del doppio della somma richiesta – cosa che in effetti avvenne. Una volta liberato, Cesare armò delle navi, catturò i pirati e li uccise tutti, restituendo ai compagni la somma raccolta.
Al ritorno a Roma, iniziò l’ascesa politica di Cesare: tribuno militare, questore, edile curule, pontefice massimo, pretore, si avvalse del supporto (anche finanziario) di Marco Licinio Crasso, e al contempo si avvicinò alle posizioni di Gneo Pompeo Magno. Grande ammiratore di Alessandro Magno, vedendone una statua durante una visita a Cadice scoppiò in lacrime, dolendosi di non aver ancora compiuto grandi imprese a un’età in cui Alessandro regnava già su popoli e nazioni. Dopo essere stato propretore (governatore) della Spagna Ulteriore, nel 60 a.C. Cesare fu eletto console per l’anno successivo; stipulò inoltre con Crasso (l’uomo più ricco di Roma) e Pompeo (il generale di maggior successo) un accordo privato che sarebbe stato definito “primo triumvirato”.
Tra il 58 e il 50 a.C., Cesare si dedicò alla conquista della Gallia, un’impresa che lui stesso descrisse nei Commentarii de bello Gallico. La spedizione, che il Senato aveva approvato nella speranza che la popolarità di Cesare scemasse, fu intervallata da ulteriori attacchi (in Germania e Britannia), ma anche dalla repressione di varie rivolte: l’ultima, quella di Vercingetorige, si concluse con la vittoria decisiva di Cesare, che segnò la sottomissione definitiva della Gallia.
Nel frattempo, nel 53 a.C. era morto Crasso, sconfitto a Carre dai Parti. Il Senato, intimorito dai successi di Cesare, appoggiò sempre più apertamente Pompeo e, dopo la conclusione delle operazioni in Gallia, impose a Cesare di sciogliere le sue legioni entro la fine del 50 a.C. e tornare a Roma da privato cittadino. I tribuni della plebe, che avrebbero potuto esercitare il diritto di veto contro la decisione del Senato, furono costretti a lasciare Roma all’inizio del 49 a.C.: a quel punto, Cesare varcò con il suo esercito il Rubicone, il confine sacro oltre il quale non si poteva entrare in armi. Pronunciando la storica frase alea iacta est (“il dado è tratto”), Cesare dichiarava guerra al Senato e alla Repubblica. Tali vicende sono state narrate in prima persona da Cesare nei Commentarii de bello civili.
Dopo alcune fasi alterne, lo scontro decisivo avvenne a Farsàlo, in Tessaglia, dove Cesare, seppure in inferiorità numerica, inflisse a Pompeo una rovinosa sconfitta. Pompeo cercò rifugio in Egitto, presso il Faraone Tolomeo XIII, che in quel frangente stava affrontando una contesa dinastica con la sorella Cleopatra VII. Confidando di ottenere il favore del vincitore di Farsàlo, Tolomeo fece uccidere Pompeo, di cui presentò la testa imbalsamata a Cesare: questi, però, intendeva riappacificarsi col rivale, e comunque non poteva tollerare l’assassinio di un suo concittadino. Decise di quindi di appoggiare le rivendicazioni di Cleopatra che, secondo la leggenda, gli si presentò sbucando completamente nuda da un tappeto che un suo fedele amico srotolò davanti al condottiero. I due divennero amanti, e dalla loro unione nacque un bambino, Tolomeo XV Cesare, più noto come Cesarione.
Nel frattempo, i pompeiani si erano riorganizzati, e Cesare dovette riprendere la guerra civile. Dapprima, nel 47 a.C. sconfisse il Re del Ponto Farnace II, in una battaglia che non creò a Cesare la minima difficoltà, tanto che si dice che il grande generale abbia commentato la vittoria con le parole veni, vidi, vici (“sono venuto, ho visto, ho vinto”). Cesare partì quindi per l’Africa, dove i suoi nemici erano guidati da Marco Porcio Catone (l’Uticense), e li sconfisse nel 46 a.C. a Tapso, nell’odierna Tunisia: Catone si suicidò a Utica, mentre i figli di Pompeo, Gneo e Sesto, e l’ex luogotenente di Cesare Tito Labieno ripararono in Spagna. Qui, a Munda, ebbe luogo nel 45 a.C. l’ultima battaglia della guerra civile, che si concluse con la vittoria definitiva di Cesare.
Rimasto ormai senza oppositori, Cesare fece ritorno a Roma, dove il 14 febbraio del 44 a.C. ottenne la dittatura perpetua. A quel punto, però, iniziò a essere accusato di volersi proclamare Re di Roma, un’aspirazione che il condottiero avrebbe sempre negato. Cesare si autonominò console per l’anno in corso assieme al fidato Marco Antonio, una decisione che scontentò Gaio Cassio Longino, che aspirava a sua volta al consolato.
Cassio iniziò quindi a ordire una congiura anticesariana, nella quale coinvolse il cognato Marco Giunio Bruto, nipote di Catone Uticense e figlio di un’ex amante di Cesare, che secondo Plutarco aveva delle ragioni per crederlo suo figlio. Bruto discendeva da Lucio Giunio Bruto, illustre tirannicida e fondatore della Repubblica, e nei primi mesi del 44 a.C. fu oggetto di un’anonima campagna fatta di biglietti e scritte sui muri (“Dormi, Bruto?”) che lo esortavano all’azione per difendere le istituzioni repubblicane. Terzo leader del complotto fu Decimo Giunio Bruto Albino, mentre non aderì il grande oratore Marco Tullio Cicerone, che pure simpatizzava per i congiurati (celebre è la sua irridente definizione di Cesare come “marito di tutte le mogli e moglie di tutti i mariti”).
Secondo la tradizione, la morte di Cesare fu preceduta da un grande numero di presagi, al punto che perfino sua moglie Calpurnia, terrorizzata da un sogno premonitore, pregò Cesare di non recarsi alla seduta del Senato prevista per le Idi di marzo del 44 a.C. (il 15 marzo): giorno, peraltro, da cui un aruspice di nome Spurinna aveva ammonito il dittatore di guardarsi. Decimo Bruto riuscì a convincere Cesare a recarsi nella Curia di Pompeo, dove il Senato si riuniva da quando, nel 52 a.C., la Curia era stata distrutta da un incendio. Lungo la strada, Cesare venne avvicinato da un suo amico, il filosofo Artemidoro di Cnido, che gli consegnò un libello con i nomi dei congiurati: il dittatore, però, non riuscì a leggerlo a causa della folla che lo pressava da ogni lato. Giunto a destinazione, Cesare scorse Spurinna, a cui gridò beffardo che le Idi di marzo erano arrivate: a cui l’indovino replicò che sì, erano arrivate – ma non erano ancora passate.
Cesare si sedette al suo seggio, dove fu subito attorniato dai congiurati, che fingevano di dovergli chiedere grazie e favori: nel frattempo, Decimo Bruto tratteneva Marco Antonio fuori dall’edificio, per evitare che potesse intervenire. A un segnale convenuto, Publio Servilio Casca Longo sfoderò il pugnale e colpì per primo Cesare. Ferito superficialmente, il dittatore cerco di difendersi, ma si ritrovò circondato. Raccolse le proprie vesti per pudicizia e, quando vide anche Bruto farglisi contro, gli rivolse le sue ultime parole: Tu quoque, Brute, fili mi? (“Anche tu, Bruto, figlio mio?”). Cesare cadde ai piedi della statua di Pompeo, e spirò, trafitto da ventitré coltellate, di cui forse, però, una sola fu mortale.
A Cesare vennero tributati onori divini. Suo erede fu il giovane pronipote Gaio Ottavio che, una volta adottato, assunse il nome di Gaio Giulio Cesare Ottaviano. Nessun diritto di successione poté mai rivendicare Cesarione, il figlio di Cleopatra, la quale divenne l’amante di Marco Antonio. I cesaricidi, che si erano illusi di avere l’appoggio del popolo, si trovarono invece del tutto isolati, e dovettero fuggire in gran fretta dalla città, presto incalzati da Antonio e Ottaviano. Si dice che, nel 42 a.C., Bruto vide l’ombra di Cesare che gli preannunciò che si sarebbero rivisti a Filippi: proprio in questa città della Macedonia, nell’ottobre di quell’anno, ebbe luogo la decisiva battaglia che sancì la vittoria dei cesariani. Bruto e Cassio si suicidarono dopo la disfatta: a due anni dall’assassinio di Cesare, la sua vendetta era compiuta.